E tutti hanno guardato l’orologio, e un groppo in gola ci ha impedito di continuare a parlare.
Sapevamo che era una rappresentazione, ma comunque l’effetto era agghiacciante.
Per un momento abbiamo in piccolo vissuto lo stesso stato d’animo che in qualsiasi luogo, in qualsiasi epoca, provano le popolazioni quando una sirena preavvisa che dal cielo arriva una minaccia, che bisogna fuggire, ripararsi, che non c’è scampo, non c’è difesa per i civili, se non in un rifugio, un riparo.
Ad Urbania quella domenica di 66 anni fa, non suonò la sirena, i bombardamenti non avevano mai attaccato Urbania, non c’erano mai stati e non ci furono più attacchi. Non vi erano in Urbania obbiettivi militari.
La Ferrovia era più in basso a più di quattro kilometri, alle Baracche.
Non c’era motivo di avvisare la popolazione. Gli aerei passavano solamente sopra il cielo di Urbania. Per cercare i nodi ferroviari toscani o bolognesi, obiettivi strategicamente più importanti, per impedire i rifornimenti tedeschi o repubblichini in seguito allo sbarco di Anzio.
La guerra c’era. La linea gotica, attraversava la nostra provincia. La guerra ce la raccontavano i militari ritornati, le notizie dei prigionieri, quando arrivavano, in seguito alla rotta dell’esercito italiano, dopo l’8 settembre.
Ce la raccontavano le radio, soprattutto l’ascolto clandestino di Radio Londra. Il governo italiano era al sud, ma da noi niente di particolarmente rilevante.
Era domenica, una domenica chiara e fredda, come ci sono in gennaio, un piccolo assaggio della primavera che verrà.
La gente tranquilla usciva dalla messa e si preparava a tornare a casa dopo un fugace salto dal barbiere, o due chiacchiere con gli amici in osteria o le piccole spese che in tempo di guerra si potevano permettere.
Allora la Domenica i negozi erano aperti, le popolazioni rurali potevano scendere in paese di domenica perché gli altri giorni c’era da lavorare.
Poco importa la cronaca esatta.
D’improvviso qualche aereo dei numerosi che tornavano si abbassa, probabilmente i motori si sentono più vicini, perdono di giri, come si dice, poi il fischio il botto atroce, i palazzi che si afflosciano, i vetri che tintinnano, il piccolo circo che scompare.
Poi come una nebbia un silenzio, quanto lungo nessuno se lo ricorda, dieci venti secondi un minuto. ….. E poi un lamento, un urlo atroce che attraversa la città.
Da quel momento niente è più come prima. Da quel momento ogni persona cambia il corso della sua vita. Muoiono 250 persone, rimangono ferite altre centinaia, ognuno ha un fratello o un cugino o un genitore o un figlio da accudire o seppellire. Scompaiono famiglie intere.
E poi i giorni successivi, inizia l’opera di soccorso, volontari militari civili, i carissimi, per tirare fuori le persone dalle macerie. L’ospedale pieno di feriti. Le persone sane che si allontanano verso la campagna. Ognuno si rifugia in un podere. Amicizie fraterne che continueranno per tutto il dopoguerra.
Quasi ogni famiglia di Urbania è stata colpita. Ognuno ha una storia da raccontare. Chi ricorda un morto, o un ferito, o una persona che si è salvata per un attimo, per una decisone banale in qualsiasi altro momento. Un’ultima frase, un saluto, un rifiuto di un bambino.
I racconti che abbiamo sentito tante volte, trascritti o filmati.
I racconti che non sentiremo mai. Che sono scomparsi sotto le macerie.
Ieri sera la sintesi del bel film di Andrea Tancini e Salvatori Enrico, Paolo Cellini, ci ha restituito la stessa angoscia.
Foto di famiglia, immagini di vita quotidiana, la caldarroste, le brustoline, la tabaccaia. Scompare sotto le bombe tutto l’archivio del fotografo storico di Urbania. La memoria della città.
Scompaiono palazzi storici di Urbania.
Due giornate prima di Urbania lo scoppio di Montecchio. Un botto enorme. Un’azione di sabotaggio, contro i tedeschi, per distruggere un arsenale di morte che si trasforma in una grande tragedia e nella scomparsa dell’allora borgo di Montecchio. Anche a Montecchio 30 morti.
Un contesto, una storia diversa, ma una memoria che ancor oggi resta nel ricordo di tante famiglie colpite. Che è nella carne di chi ricorda.
Su ambedue gli episodi per anni una cortina di silenzio, per motivi diversi: in un caso perché provocata da quelli che erano già i nostri alleati, già allora dei badogliani ed in seguito dell’intero paese, nell’altro caso addirittura per mano dei partigiani.
Lo abbiamo voluti raccontare e celebrare insieme, perché sono facce di una stessa medaglia. Una medaglia terribile, la guerra.
La guerra moderna che tutto annulla. La guerra moderna che colpisce terrorizza i civili, la guerra nella quale chi preme il grilletto non sente il dolore che provoca. E’ un’azione come un’altra. Come si fa a provare rancore. Li ho letti quei report americani.
Giovani di vent’anni che ogni giorno prendono un biglietto si sola andata. Che il giorno dopo avrebbero bombardato Sofia in Romania. E forse ancor dopo in Austria o Germania. Probabilmente alcuni persero subito la loro vita i giorni successivi. Come ci ha raccontato ieri sera Mazzanti
Giovani che a sprezzo del pericolo si aggregano nei GAP, gruppi di sabotaggio partigiani, che rischiano la vita per combattere l’invasore.
Un atto banale, una decisione, il dito su un comando e vite che scompaiono per sempre.
Non sono loro i colpevoli. E’ la guerra. La guerra moderna. Che distrugge, che terrorizza le popolazioni.
Si era sperimentata a Guernica, la città ormai più conosciuta per il quadro di Picasso che per i morti in seguito ai bombardamenti degli alleati fascisti e nazisti di Franco.
Si era sperimentata in piccolo nella prima guerra con i primi aerei.
Ma nel secondo conflitto diventa normalità. Scompaiono intere città, Dresda viene bombardata di notte selvaggiamente, sul fronte opposto Londra, poi Berlino, Mosca, Leningrado.
E le tracce rimangono per sempre. Nella struttura delle città, anche in Urbania, nelle poco felici ricostruzioni del dopoguerra ed anche nei buchi delle mancate ricostruzioni o nei tetti piatti nelle nostre foto aeree. Tracce soprattutto nella memoria.
Sono 66 anni che questo giorno viene celebrato come il nostro giorno della memoria. Ognuno conosce un racconto famigliare.
Un mio zio sedicenne dal barbiere si salva per miracolo, sotto una trave. Le travi che portano o morte o sopravvivenza. Una nonna che per anni sopravvive con un piede maciullato per morirne un decennio dopo. Nella famiglia di mia zia da parte di madre, scompare una ragazza di 16 anni.
Tanti racconti che vorremmo diventassero un libro. Ieri sera l’abbiamo detto e cercheremo finalmente di realizzarlo e di farne omaggio a tutte le famiglie affinchè ogni ragazzo conosca la storia di questo evento tragico e possa legarla alla storia della sua famiglia.
Quest’anno abbiamo deciso di celebrare insieme a S.Angelo in Lizzola quelle che furono le tragedie più grandi della Provincia nel secondo conflitto.
Lo faremo anche il prossimo anno. Con me qui c’è il vicesindaco di S.Angelo ieri sera c’era il sindaco. Abbiamo un dovere: il dovere di raccontare. La guerra va raccontata, va spiegata.
La guerra non nasce a caso, d’improvviso. Ha una fase di preparazione. Che è impastata d’odio, di sopraffazione, di facilonerie guerresche. Di eroismi e vanaglorie, che si sciolgono non appena arriva il volto vero della guerra: la morte, la distruzione, i peggiori istinti che diventano normalità quotidiana, i limiti che spariscono per sempre.
La guerra moderna è terribile: 20 milioni di morti nel primo confitto, 50 milioni nel secondo conflitto, quasi due terzi civili. 26 milioni di morti in Russia, 14 nell’invasione giapponese della Cina. In gran parte civili.
Chi ha vissuto la guerra ha il compito di ricordarla, ma soprattutto il dovere di preparare la pace. La pace non è un’affermazione retorica. La pace costa fatica, richiede impegno. La pace è il coraggio di dire le cose che non sempre fanno piacere a tutti.
La pace significa non fermarsi alla superficie delle cose, guardare all’umanità delle persone. Rispettarne le diversità: di razza di religione, di opinione.
La pace costa fatica. Richiede impegno, ma rappresenta l’unico futuro possibile per l’umanità.
Trasformare la celebrazione, il ricordo di questi due episodi in un impegno di pace fra due città come Urbania e S.Angelo in Lizzola credo sia l’impegno che abbiamo il dovere di assumerci oggi.
Sapevamo che era una rappresentazione, ma comunque l’effetto era agghiacciante.
Per un momento abbiamo in piccolo vissuto lo stesso stato d’animo che in qualsiasi luogo, in qualsiasi epoca, provano le popolazioni quando una sirena preavvisa che dal cielo arriva una minaccia, che bisogna fuggire, ripararsi, che non c’è scampo, non c’è difesa per i civili, se non in un rifugio, un riparo.
Ad Urbania quella domenica di 66 anni fa, non suonò la sirena, i bombardamenti non avevano mai attaccato Urbania, non c’erano mai stati e non ci furono più attacchi. Non vi erano in Urbania obbiettivi militari.
La Ferrovia era più in basso a più di quattro kilometri, alle Baracche.
Non c’era motivo di avvisare la popolazione. Gli aerei passavano solamente sopra il cielo di Urbania. Per cercare i nodi ferroviari toscani o bolognesi, obiettivi strategicamente più importanti, per impedire i rifornimenti tedeschi o repubblichini in seguito allo sbarco di Anzio.
La guerra c’era. La linea gotica, attraversava la nostra provincia. La guerra ce la raccontavano i militari ritornati, le notizie dei prigionieri, quando arrivavano, in seguito alla rotta dell’esercito italiano, dopo l’8 settembre.
Ce la raccontavano le radio, soprattutto l’ascolto clandestino di Radio Londra. Il governo italiano era al sud, ma da noi niente di particolarmente rilevante.
Era domenica, una domenica chiara e fredda, come ci sono in gennaio, un piccolo assaggio della primavera che verrà.
La gente tranquilla usciva dalla messa e si preparava a tornare a casa dopo un fugace salto dal barbiere, o due chiacchiere con gli amici in osteria o le piccole spese che in tempo di guerra si potevano permettere.
Allora la Domenica i negozi erano aperti, le popolazioni rurali potevano scendere in paese di domenica perché gli altri giorni c’era da lavorare.
Poco importa la cronaca esatta.
D’improvviso qualche aereo dei numerosi che tornavano si abbassa, probabilmente i motori si sentono più vicini, perdono di giri, come si dice, poi il fischio il botto atroce, i palazzi che si afflosciano, i vetri che tintinnano, il piccolo circo che scompare.
Poi come una nebbia un silenzio, quanto lungo nessuno se lo ricorda, dieci venti secondi un minuto. ….. E poi un lamento, un urlo atroce che attraversa la città.
Da quel momento niente è più come prima. Da quel momento ogni persona cambia il corso della sua vita. Muoiono 250 persone, rimangono ferite altre centinaia, ognuno ha un fratello o un cugino o un genitore o un figlio da accudire o seppellire. Scompaiono famiglie intere.
E poi i giorni successivi, inizia l’opera di soccorso, volontari militari civili, i carissimi, per tirare fuori le persone dalle macerie. L’ospedale pieno di feriti. Le persone sane che si allontanano verso la campagna. Ognuno si rifugia in un podere. Amicizie fraterne che continueranno per tutto il dopoguerra.
Quasi ogni famiglia di Urbania è stata colpita. Ognuno ha una storia da raccontare. Chi ricorda un morto, o un ferito, o una persona che si è salvata per un attimo, per una decisone banale in qualsiasi altro momento. Un’ultima frase, un saluto, un rifiuto di un bambino.
I racconti che abbiamo sentito tante volte, trascritti o filmati.
I racconti che non sentiremo mai. Che sono scomparsi sotto le macerie.
Ieri sera la sintesi del bel film di Andrea Tancini e Salvatori Enrico, Paolo Cellini, ci ha restituito la stessa angoscia.
Foto di famiglia, immagini di vita quotidiana, la caldarroste, le brustoline, la tabaccaia. Scompare sotto le bombe tutto l’archivio del fotografo storico di Urbania. La memoria della città.
Scompaiono palazzi storici di Urbania.
Due giornate prima di Urbania lo scoppio di Montecchio. Un botto enorme. Un’azione di sabotaggio, contro i tedeschi, per distruggere un arsenale di morte che si trasforma in una grande tragedia e nella scomparsa dell’allora borgo di Montecchio. Anche a Montecchio 30 morti.
Un contesto, una storia diversa, ma una memoria che ancor oggi resta nel ricordo di tante famiglie colpite. Che è nella carne di chi ricorda.
Su ambedue gli episodi per anni una cortina di silenzio, per motivi diversi: in un caso perché provocata da quelli che erano già i nostri alleati, già allora dei badogliani ed in seguito dell’intero paese, nell’altro caso addirittura per mano dei partigiani.
Lo abbiamo voluti raccontare e celebrare insieme, perché sono facce di una stessa medaglia. Una medaglia terribile, la guerra.
La guerra moderna che tutto annulla. La guerra moderna che colpisce terrorizza i civili, la guerra nella quale chi preme il grilletto non sente il dolore che provoca. E’ un’azione come un’altra. Come si fa a provare rancore. Li ho letti quei report americani.
Giovani di vent’anni che ogni giorno prendono un biglietto si sola andata. Che il giorno dopo avrebbero bombardato Sofia in Romania. E forse ancor dopo in Austria o Germania. Probabilmente alcuni persero subito la loro vita i giorni successivi. Come ci ha raccontato ieri sera Mazzanti
Giovani che a sprezzo del pericolo si aggregano nei GAP, gruppi di sabotaggio partigiani, che rischiano la vita per combattere l’invasore.
Un atto banale, una decisione, il dito su un comando e vite che scompaiono per sempre.
Non sono loro i colpevoli. E’ la guerra. La guerra moderna. Che distrugge, che terrorizza le popolazioni.
Si era sperimentata a Guernica, la città ormai più conosciuta per il quadro di Picasso che per i morti in seguito ai bombardamenti degli alleati fascisti e nazisti di Franco.
Si era sperimentata in piccolo nella prima guerra con i primi aerei.
Ma nel secondo conflitto diventa normalità. Scompaiono intere città, Dresda viene bombardata di notte selvaggiamente, sul fronte opposto Londra, poi Berlino, Mosca, Leningrado.
E le tracce rimangono per sempre. Nella struttura delle città, anche in Urbania, nelle poco felici ricostruzioni del dopoguerra ed anche nei buchi delle mancate ricostruzioni o nei tetti piatti nelle nostre foto aeree. Tracce soprattutto nella memoria.
Sono 66 anni che questo giorno viene celebrato come il nostro giorno della memoria. Ognuno conosce un racconto famigliare.
Un mio zio sedicenne dal barbiere si salva per miracolo, sotto una trave. Le travi che portano o morte o sopravvivenza. Una nonna che per anni sopravvive con un piede maciullato per morirne un decennio dopo. Nella famiglia di mia zia da parte di madre, scompare una ragazza di 16 anni.
Tanti racconti che vorremmo diventassero un libro. Ieri sera l’abbiamo detto e cercheremo finalmente di realizzarlo e di farne omaggio a tutte le famiglie affinchè ogni ragazzo conosca la storia di questo evento tragico e possa legarla alla storia della sua famiglia.
Quest’anno abbiamo deciso di celebrare insieme a S.Angelo in Lizzola quelle che furono le tragedie più grandi della Provincia nel secondo conflitto.
Lo faremo anche il prossimo anno. Con me qui c’è il vicesindaco di S.Angelo ieri sera c’era il sindaco. Abbiamo un dovere: il dovere di raccontare. La guerra va raccontata, va spiegata.
La guerra non nasce a caso, d’improvviso. Ha una fase di preparazione. Che è impastata d’odio, di sopraffazione, di facilonerie guerresche. Di eroismi e vanaglorie, che si sciolgono non appena arriva il volto vero della guerra: la morte, la distruzione, i peggiori istinti che diventano normalità quotidiana, i limiti che spariscono per sempre.
La guerra moderna è terribile: 20 milioni di morti nel primo confitto, 50 milioni nel secondo conflitto, quasi due terzi civili. 26 milioni di morti in Russia, 14 nell’invasione giapponese della Cina. In gran parte civili.
Chi ha vissuto la guerra ha il compito di ricordarla, ma soprattutto il dovere di preparare la pace. La pace non è un’affermazione retorica. La pace costa fatica, richiede impegno. La pace è il coraggio di dire le cose che non sempre fanno piacere a tutti.
La pace significa non fermarsi alla superficie delle cose, guardare all’umanità delle persone. Rispettarne le diversità: di razza di religione, di opinione.
La pace costa fatica. Richiede impegno, ma rappresenta l’unico futuro possibile per l’umanità.
Trasformare la celebrazione, il ricordo di questi due episodi in un impegno di pace fra due città come Urbania e S.Angelo in Lizzola credo sia l’impegno che abbiamo il dovere di assumerci oggi.
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